Pubblico qui di seguito la mia recensione di Infanzia resa di Sebastiano Aglieco. L'articolo è apparso su Poeti del Parco il 21 maggio scorso. Sono grata a Vincenzo Luciani per avermi dato l'occasione di confrontarmi con questa raccolta poetica perché il dialogo tra azione e meditazione che ne scaturisce è per me una risorsa preziosa. Sono grata a Sebastiano Aglieco per la generosa accoglienza che ha dato al mio scritto sul suo blog Compitu Re Vivi 2.
Il mondo poetico che vive in Infanzia Resa, l’ultima raccolta poetica
di Sebastiano Aglieco, pubblicata nel 2018 da Il Leggio Libreria Editrice, potrebbe essere rappresentato come un
territorio che si dispiega, si rispecchia e allude, duplica la sua materia in
forme opposte, distendendosi tra due assi.
Un asse percorre la poesia come
dialogo con l’Altro, invito a disporsi in comunione autentica con l’essenza più
vera e profonda dell’Altro, con un’anima che si annuncia da lontano: Vedo un pianeta immenso popoli/ l’anima, in tanta lontananza. (p.
15), dicono i versi di uno dei bambini in mirabile dialogo maieutico e poetico
con il maestro. La raccolta è costellata di testi in corsivo, definiti da
Aglieco gli “angeli custodi” che lo hanno ancorato “saldamente alla terra, al
qui e ora, senza svagare” (p. 138), ne sono autori i bambini che egli ha
seguito in questi anni a Milano, come egli stesso scrive in apertura della
raccolta.
L’altro asse è quello del ritiro,
della riflessione, il luogo di meditazione e contemplazione necessario all’io
poetico per decantare la visione, per coglierne i segni e la necessità, la
potenzialità attuabile di un tempo più giusto per cui battersi. È l’attitudine
che richiede la celebrazione quotidiana del Rito
(p. 19), la separazione dal tempo, la creazione di uno spazio sacro
costituito dal tempo-scuola, l’inizio quotidiano di questo tempo segnato dalla
suggestione delle luci che si accendono nel parco alle otto e venti di ogni mattina.
In Animae (p. 18) si intrecciano alcuni dei fili che attraversano il
tessuto dell’opera: all’amore per i bambini, a questa pedagogia fondata sull’amore
per l’essenza irripetibile dell’infanzia, per il suo tempo breve e il suo
rapporto di immediatezza con il mondo, si lega il tema della ricerca del vero
nome, dell’essenza con cui si prende coscienza di sé e ci si presenta al mondo,
tema che percorre tutta la raccolta con diverse declinazioni:
Ci sono momenti in cui vi amo
veramente
mentre atterrate la neve dagli
alberi e giocate
alla ricerca del vostro vero nome
Compare di seguito l’invito alla
bellezza e alla cura del grande come del piccolo, bellezza e cura che
coincidono con l’impegno civile, si riversano in esso, nella disponibilità con
cui si risponde all’ appello a una
giustizia per tutti accettando l’inconoscibile e il mistero che porta con
sé: Io non so cosa sia, oggi, questa luce
che si/ apre al bianco …
Troviamo molte altre volte la
parola luce scorrendo il libro e la
vediamo irradiarsi, abbacinare, mutare d’intensità, creare la zona d’ombra che
fa risaltare la visione, negarsi per chiedere una riflessione onesta, per
portare all’accettazione del dolore, che
sia amato e custodito, leggeremo tra poco nei versi di una poesia severa e
toccante (p. 23). Se qui la luce può essere letta come accettazione, resa
all’inconoscibile e al mistero, altrove si fa annuncio: un’attesa è nella luce dei viali impolverati (p. 92). Essa è anche
il conforto che accoglie il poeta
commosso davanti ai suoi bambini accompagnandosi al loro breve accadere:
… perdono, ripetevo
nella mente, lasciatemi qui
apritemi alla luce nuova della
terra che
si illumina di voi
del vostro breve accadere. (p. 89)
In Terezin
assume la consistenza materica e
vischiosa del sangue in cui scorre l’orrore dell’atto: … questi alberi, oggi, segati sotto i/ nostri occhi come gli agnelli/
nella luce del sangue (p. 52); e
ancora lascia trasparire il mistero inteso come fatto incomprensibile,
sacralità tremenda: Non vogliono niente/ essere solo in questo
terrore della/ luce … (p.118).
Nella già citata Terezin tutta la narrazione sembra
svolgersi accompagnata dalla colonna sonora di un silenzio di macerie che
accomuna bambini, di generazioni distanti decenni, nel sentimento del dolore e
nella coscienza sgomenta del tradimento subito dai fratelli. Il silenzio, in
queste poesie, nella scrittura poetica del maestro e dei bambini, contiene e
preserva, è la realtà che sta oltre, che
tocca i/ polsi, che farà tremare gli occhi (p. 28). Esso sembra porsi come segno
dell’autentico, dell’immanenza del vero (p. 48): A volte la pagina rimane
vuota/ allora guardo dalla finestra e/ invoco il silenzio nelle parole. Leggiamo
i versi di un bambino: Con il cuore
parli, e/ il silenzio ti fa scrivere (p. 107) e comprendiamo che, questo
silenzio che contiene la scrittura, deriva da un silenzio più profondo al quale il
maestro ha educato i suoi alunni, in cui si sono immersi, il silenzio che qualcuno
ha intuito compagno diletto del dolore e anelito muto verso l’amore perduto (p.
102): Qualcuno di voi ha già capito/
affronta il dolore che/ s’incammina verso la/ terra scura, il silenzio di
Euridice. Compare qui la varietà di significati assegnata alla parola
silenzio che s’incunea fino alle sue accezioni negative di privazione e di
impedimento (p. 74). È rimasto un
granello/ lo tengo in una mano come/ la promessa di un altro giorno, uno/ solo
che non si piega più al silenzio, … Ci
riconciliamo con esso quando leggiamo, nel tono intimo e riflessivo dei versi
di pagina 121, che è lo stesso
maestro-poeta a cercarlo per leggersi dentro:
ho bisogno di capire il silenzio
che
sarà in me, quando non sarò più
l’attesa
di nessuno e non avrò più bocche
da sfamare
con le mie parole.
Si potrebbe parlare di coraggio
riflettendo sul modo in cui Aglieco sceglie e usa le parole, e sviluppa il
discorso per renderci coscienti della complessità, dell’inafferrabile, del
mistero: parole semplici, appartenenti al lessico comune, in un discorso che, a
volte, richiama l’andamento della fiaba, altre volte prende un tono piano ma
autorevole, che salda la commozione alla meditazione e alla consapevolezza di
una responsabilità educativa che è
dell’uomo, del poeta e del maestro. Un compito non facile a cui egli si offre
con la fiducia che acquisisce chi
affronta un lungo e costante cammino di indagine e introspezione che non
trascura il dispiegarsi degli eventi, né la ricerca attiva e attualizzante di “
un tempo più giusto”, né l’interiorità. Leggiamo come una esemplare dichiarazione
di intenti, Il vostro vero nome a
pagina 23:
Non baro
voglio che capiate il dolore degli altri
che sia amato e custodito
nell’attesa del vostro vero nome.
Riportate la parola al suo stupore!
Voglio rimanere in questo tempo
come il bagolaro che si piega
alla ferocia delle vostre mani.
Offritemi al dio della pazienza.
voglio che capiate il dolore degli altri
che sia amato e custodito
nell’attesa del vostro vero nome.
Riportate la parola al suo stupore!
Voglio rimanere in questo tempo
come il bagolaro che si piega
alla ferocia delle vostre mani.
Offritemi al dio della pazienza.
Il maestro si fonde con il poeta,
dichiara che il suo insegnamento è prima di tutto conoscenza del dolore ed
apertura alla verità dell’Altro e del mondo. E chiede un compito impegnativo ai
suoi allievi: Riportate la parola al suo
stupore! Ogni superficialità è finalmente bandita nello spazio sacro del
tempo-scuola, del tempo dell’infanzia, la parola non può essere quella
assoggettata alla produzione, al consumo, essa è conoscenza, comunicazione,
dialogo, scoperta, riflessione, partecipazione, amore. La parola, che è il
tramite per la complessità e il mistero, è essenzialmente amore, incarnato dal
maestro attraverso l’accettazione, l’attenzione, la pazienza, lo sguardo.
Anche a chi voglia entrare nella parola-poesia,
viverla diventando permeabili all’Altro, è richiesto coraggio. È necessario essere
disposti a ferirsi, (p. 39):
Accetta
il dono dello specchio che
ti viene incontro e ti ferisce con un bacio:
il bacio del fratello più sincero
che lasci, per ricompensa, al tempo
dell’infanzia.
La resa del dolore e al dolore
diventano talora vie obbligate per la liberazione del sé, per aprirsi
all’accettazione di sé, della propria storia, allo sguardo risanante
dell’Altro. Bisogna lasciar cadere la scorza dell’intangibilità e della
incomunicabilità (p. 41):
Appaiono
draghi tra le righe del tuo
quaderno,
li incidi col graffi della punta
velenosa e graffi, e ti graffi finalmente.
Aglieco non nasconde il dolore,
la violenza mascherata dei tempi, e dichiara senza mezzi termini il suo intento
di maestro e di poeta. La sua poetica è consustanziata di impegno, cura,
ricerca dell’autentico, la serietà vi ha luogo come attitudine che l’io poetico
lascia trasparire quale atteggiamento dell’esistenza. Nei versi che stiamo per
leggere, a pagina 87 della raccolta, il discorso viene dalla voce unica e
duplice del maestro- poeta.
Non oso ridere delle lacrime
non rido ma grido dietro le sbarre del
tempo, dietro le vostre maschere.
Non è vero che se ferisco uccido:
lascio l’apertura del sangue per
entrare dove non c’è vestito e
non c’è festa e non c’è pudore
lascio l’avventura dello sguardo alla
distruzione, a quella parte di noi che
incontreremo dopo la caduta.
non rido ma grido dietro le sbarre del
tempo, dietro le vostre maschere.
Non è vero che se ferisco uccido:
lascio l’apertura del sangue per
entrare dove non c’è vestito e
non c’è festa e non c’è pudore
lascio l’avventura dello sguardo alla
distruzione, a quella parte di noi che
incontreremo dopo la caduta.
È un discorso inattuale, o
diremmo meglio contro-attuale, in un tempo come il nostro che si vota alla
superficiale facilitazione, all’edonismo immediato, agli irrigidimenti
burocratici e perde di vista l’essenziale, l’autentico, la verità della caduta,
ma anche la bellezza. L’espressione ferma del dissenso dovrebbe farci
riflettere sull’urgenza di tornare a una pedagogia non asservita, all’autorevolezza
della conoscenza, alla centralità del dialogo in cui ognuno ha il suo riconoscimento
e trova la sua visione, all’accettazione di una via non innocua, ma salvifica,
quale è metaforicamente la ferita, per aprire un varco al vero.
C’è tanto altro ancora in questa
raccolta, tanto per cui vale la pena leggere, rileggere, meditare, graffiarsi
via la scorza che ci isola e ci rende indifferenti all’infanzia presente, che
ha raggelato la nostra infanzia trascorsa. Le parole scelte come tracce per questo
percorso di lettura sono soltanto alcune di quelle che saltano all’occhio e
dicono la profondità del dettato poetico nei testi della raccolta. Colpisce che
anche i testi dei bambini si inscrivano nella complessità e nel mistero, vi
alludano in vario modo e in varie forme scrivendo
di cose tangibili e vissute, osservate e amate. Senz’altro questo è il segno
del dono fruttifero e generoso che viene dalla consuetudine di una
interlocuzione accogliente che il maestro- poeta apre alle voci dei bambini, ora idilliche, ora
incantate, ora liberate o liricamente dolenti. E per chi è maestro o maestra,
come me, la lettura di questa raccolta vale a mantenere il coraggio di educare
al vero, ad amare autenticamente l’Altro, a lasciarsi permeare da questo dono
impagabile e partecipare con attenzione, pazienza, dedizione, alla sacralità
del tempo- scuola, all’insita bellezza che torna negli sguardi, essere il guaritore ferito che guarisce (p.
34):
Oggi, dopo il gioco, hai scelto il nome più segreto
del maestro più vero:
il guaritore ferito che guarisce.
del maestro più vero:
il guaritore ferito che guarisce.
Cristina Polli
Paul Klee, Polifonia, 1932