mercoledì 11 aprile 2018

Giovanni Luca Asmundo, Stanze d'isola. Una lettura.


Ho iniziato la lettura di questa silloge di Giovanni Luca Asmundo, Stanze d’isola, Oèdipus 2017  avvertendo in pieno lo sgomento del corifeo che prende atto di una perdita, di non poter tornare indietro e, nello stesso tempo di dover svolgere un atto solenne senza sentirsene degno: Dovevamo recitare uno spettacolo/ ma abbiamo dimenticato di imparare la parte.
Il tempo concesso è finito, o meglio il tempo è diventato un tempo altro e il ritorno anelato, il compimento, è ormai una ferita, un futuro sognato e impossibile:
Non basta mescere vino e melodie/ non basta un occhio sulla prora a far da casa  (p. 14)
Il tempo, il ritorno, il mare, la pietra: queste le apparenze che si muovono e si contrastano sulla scena, incontrandosi o ignorandosi mentre la Storia si svolge in un luogo che il presente mitico tiene al margine o è relegata in memorie che il mare dilava (p. 11) :

Se l’acqua avrà disossato i ciottoli
custodi delle voci degli aedi
impresse spume, a cosa aggrapperemo
quel ritorno sulla rena e soffio
che è l’esile intento opposto al tempo

un destino comune patiremo
privato di memoria e di catarsi
fino al consumo di giorni caduti

Il mare. Emblema dell’eterno variare, dell’eterna dispersione, dell’incomprensibilità. Un mare che sovrasta e sottrae quello di Asmundo, sovrasta le voci degli aedi e quelle del coro (p. 15) :  ... parlava da solo/ fragore continuo (p. 34), oppure è il blu troppo aspro nel mezzogiorno salso (31) che scrosta l’intonaco e le strade che voltano e chiudono; il mare oltre le finestre vuote non visto e non compreso, ancorati a un gesto che tiene saldi  alla terra e salva nella ripetizione: La sera, stavamo alla finestra vuota/ mangiando pane e olive (p. 34)
Mare amaro, mare amato in questi versi che incatenano al loro variare ondivago (p. 21):

E finì per assomigliare al mare
perché sempre ne aveva scrutato obliquamente
il senso, oltre il silenzio abbacinato

all’immagine di creature mitiche coi capelli d’alga e di percorsi a spirale del pensiero-conchiglia,

E finì per assomigliare al mare
e al consumo dei giorni, incessante
e cangiante, oltre lo sguardo salato.

Ma cosa somiglia al mare? La costituzione del poeta che sa di non potersi sottrarre alla separazione perché sia vero il canto; l’isola a cui anela l’impossibile ritorno, il ricongiungimento di cuore e corpo detto in apertura della silloge, con un luogo che vive nel suo desiderio. Ma leggendo e rileggendo, ripetendo la lettura come un’onda di risacca, ecco che appare la poesia stessa, nel corpo di questi versi, a prendere le sembianze del mare.
Ed è il mare il luogo necessario al periplo, il luogo che consacra l’isola e la pietra, i boschi d’alloro, le querce, i fichi asciutti.
E come il mare è aspro, salso, odiato, ma poi assorbito e amato nella sua presenza, così la pietra è greve, stringente, erosa, sgretolata, solo per riprendere il posto che le spetta nel momento in cui l’uomo si riconcilia con il tempo (p. 41):

Quando finimmo di lasciare indietro il tempo
scelte con peso le immagini più care
le rocche sgretolate ripresero vita
e si ersero alberi dalle ossa sfiorite
sentinelle al brulicare tra i sassi.
Tutte le cose trovarono posto
e su morbidi cuscini di pietra
fu dolce il sonno dei sogni
e il mare smise di disperdere
le spiagge di pomice.

Sarà la notte a riconciliare la pietra e il tempo, il respiro dei cedri nell’epifania di luna che lenisce il tenue frinire dell’incompletezza (p. 37)  vivificando le statue in un bacio che ne rinfresca i polsi (stessa pagina),  quasi l’immagine di un quadro metafisico che, ritraendo lo sguardo di calcare indifferente alle sorti degli umani (p. 30), lo pone a confine dei destini. Si incarnano qui, nelle loro mimiche,  il vasaio, il venditore di fichi, il tranciatore di tonnina (p. 35), si ripercorre il fregio degli uomini intenti alla raccolta dei rami nel bosco d’alloro per celebrare la festa (p. 36), qui si aprono le vuote finestre nel cui vano scorgiamo la ripetizione di un gesto quotidiano quale può essere mangiare pane e olive (p. 34).
La pietra nelle sue diverse accezioni: colonna, muro, selciato selvatico, luogo di memoria, rintocco del tempo, testimone di tragedia nel ricordo del sisma del Belice (p. 25). la pietra che registra nel mito i segni della storia, storia piccola, dispersa e quotidiana che si affatica e si artiglia alle poche certezze: quel vaso di basilico appoggiato in balcone (p. 19) e le ombre dei ritorni aggrappate […] ai quattro muri, schiacciate/ su croste e conchiglie (p. 27).
Le rovine si compenetrano della vegetazione, una compenetrazione che parla della nostra identità, del nostro senso del tempo e   dell’appartenenza. [1];  le colonne doriche divorate dagli ulivi (p. 15)  e poi (p.40):

Resti di muri rosi da lumache
si ricongiungono ai cumuli di pietra
e sparsi ossi di pecora.

E infine il bianco calcare, divenuto cenere, che anche i Ciclopi sono costretti ad abbandonare, prendendo, inesperti e impacciati, il mare,  tra le urla delle capre e le loro lacrime cispose: un esodo che accomuna uomini e giganti (p. 43), un desiderio di ritorno che rende sacra l’isola e pone ogni elemento nel tempo immutabile che resterà Quando avremo finito di dimenticarci di noi stessi (p.10)

resteranno soltanto le pietre
restituite alle pietre.
Resteranno le querce immortali
sullo sfondo del bianco più solenne.
Il ronzio dell’ape insistente
nella calura che schiaccia.
E sciare nere che scivolano in mare
franando, di tanto in tanto.

La silloge cita nei titoli delle prime tre poesie e dell’ultima i momenti assegnati al coro nella tragedia greca e viene naturale immaginarne la recitazione affidata a un coro di voci, a una pluralità che si riconosce in questo dire comune.
Calata nel tempo della sua recitazione, la voce non permanente, che si impasta col fragore del mare e risuona nei passi che calcano i selciati “serpigni”, nelle voci plurime di uomini e di antiche presenze in teatri, templi e mercati, viene assorbita e si fa traccia nell’ascolto, stratigrafia nella memoria e in questa orchestrazione viene reso intellegibile il silenzio, voce di un tempo altro, immortale e immobile di cui parlano il bianco solenne delle pietre e lo sguardo di calcare. Con questo tempo sullo sfondo, non solo il ritorno, ma anche il compimento è relegato in un eterno futuro prossimo che separa e consacra.

  Cristina Polli









[1] Ripercorrendo i sentieri della mia memoria sono approdata a un paio di pagine del Diario di Repubblica dell’11 novembre 2011, Rovine. Il sottotitolo è emblematico e preoccupante: I simboli della nostra civiltà che rischiano di diventare macerie. A parlare di rovine troviamo Salvatore Settis, Georg Simmel, Marc Augè, e tanti suggerimenti di lettura in due pagine dense e solide da tenere come aggancio ad una dedizione all’appartenenza che possa riconciliarci nell’offerta e nella custodia di cultura e natura. Qui le pagine citate.



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